Vi è una pagina di Hannah Arendt di strettissima attualità, pur risalendo al 1954 sembra scritta oggi:
“Noi che abbiamo fatto esperienza delle organizzazioni totalitarie di massa sappiamo che il loro primo interesse è eliminare qualunque possibilità di solitudine. Così noi possiamo facilmente testimoniare come non solo le forme secolari di coscienza, ma anche quelle religiose, vengano eliminate quando non è più garantito lo stare un po’ da soli con se stessi [...] In certe condizioni di organizzazione politica la coscienza non funziona più [...] Un essere umano non può mantenere intatta la propria coscienza se non può mettere in atto il dialogo con se stesso, cioè se perde la possibilità della solitudine, che è necessaria per ogni forma di pensiero”.
(Hannah Arendt, Socrate, tr. di Ilaria Possenti, Raffaello Cortina, Milano 2015, pp. 46-47).
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Dal 1954 sono passati quasi settant’anni e oggi qui in Occidente non ci sono più organizzazioni totalitarie di massa. Non per questo però la coscienza, intesa qui come coscienza morale, è al sicuro.
Anzi, io ritengo che oggi la coscienza morale corra un grande pericolo. E lo dico perché oggi la condizione necessaria della coscienza pensante, cioè la solitudine, è ampiamente minacciata.
Con solitudine non intendo l’isolamento e il ritrovarsi privi di ogni vitale legame relazionale, condizione per nulla positiva e purtroppo molto diffusa.
Intendo piuttosto il silenzio interiore: il silenzio della mente che, proprio perché silente, diviene in grado di ascoltare, di pensare e quindi di elaborare liberamente il suo punto di vista e la sua presa di posizione nel mondo. Grazie al silenzio interiore la mente diviene in grado di proporsi come agente libero, nel senso di consapevole, creativo, responsabile; senza silenzio interiore, invece, non c’è la possibilità di agire, ma solo di reagire.
Ebbene, è evidente a tutti che la lettura richiede silenzio interiore e che quindi non può che favorirlo, di modo che, favorendo il silenzio, favorisce il pensiero, e favorendo il pensiero costruisce civiltà. Per questo si può e si deve parlare del libro e di tutto ciò che lo favorisce a partire dalle biblioteche come di un presidio dell’umanesimo: fino a quando leggeremo un libro, possibilmente di carta, saremo umani, onoreremo la qualifica che ci siamo dati per descrivere la nostra peculiarità più intima quando ci siamo definiti sapiens, participio presente del verbo latino sapio che significa “sapere” (da cui “sapiente”) ma anche “avere sapore” (da cui “sapido”). I libri non danno solo sapere, quello lo amministrano anche le macchine; i libri danno anche sapore. Ti fanno sentire il sapore della vita e ti conferiscono sapore come essere umano.
Vito Mancuso